L’opera prima di Francesca Boccaletto entra a passi leggeri nella sfaccettata realtà della poesia contemporanea. Lo fa con una voce matura e sorridente, consapevole delle proprie potenzialità, del proprio vissuto, delle cadute e della linfa vitale che le relazioni riescono a dare; come riporta Gianmarco Busetto nella prefazione: “queste poesie sono un aprile, un inizio di primavera. Hanno il profumo delle stanze appena arieggiate e la fragranza dei caffè divorati nei tardi pomeriggi, quando il sole comincia a somigliare a un’arancia e la sera incombe con un carico di nuove possibilità per il vivere”.
Chiediamo al cielo
di prendersi cura di noi,
tenerci stretti e benedirci sempre.
Di accarezzare
le nostre teste,
le nostre mani.
Chiediamo al cielo
di prendersi cura
dei nostri occhi al risveglio.
Una benedizione, solo per noi,
che ci convinca a restare
che allontani la paura
e ci regali,
tutti i giorni,
respiro e coraggio.
*
Sono fatta di sole,
di prosecco e disperazione.
Di canto e silenzio,
di desiderio e privazione.
Sei fatto di sale,
di pianti nascosti.
Hai ossa robuste,
larghe piante dei piedi.
*
Le ha detto ti amo
come si dice buongiorno
a un vicino di casa.
*
I momenti più felici li abbiamo vissuti
mangiando toast al formaggio
stappando bottiglie lasciate a metà.
I momenti più felici li abbiamo vissuti
cantando, bloccati nel traffico di carezze
imperfette, sgasate, stonate.
*
Che cuore che hai, si sente
e la radio è a tutto volume.
The Smiths per la nostra malinconia,
per questo, ci han detto,
sembriamo due snob.
Il tuo battito ci suona sopra,
più forte, e si mangia la musica
in un solo boccone,
con la fila di belle parole
che neppure capiamo.
Eppure cantiamo
e il cuore ci esplode,
e si vede da fuori,
la pelle è un tamburo.
A urlare facciamo fatica
e ci stanchiamo così,
dopo tre o quattro ore
siamo ancora contenti.
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