La collana «Interno Novecento» riporta in libreria l’esordio in poesia, pubblicato nel 1971 da Bompiani, dell’allora già celebre narratore “industriale” Ottiero Ottieri. Una riedizione curata nei minimi dettagli, grazie ai contributi di Edoardo Albinati e Demetrio Marra, per un volume accolto dalla critica come «un libro bellissimo» (Pasolini) e un «oggetto bruciante […], alieno nel senso profondo» (Zanzotto). Un’opera prima nata da un’intuizione: per cogliere “dal vivo”, cioè osservandolo in atto, quindi esorcizzandolo, i meccanismi, i significati ritmici del pensiero ossessivo, per natura interrotto, lacunoso, “chiuso”, sono necessari i versi o le «righe corte», cioè la forma “chiusa” della poesia. La patologia viene esposta, allora, portata alla luce attraverso una scrittura paradossalmente non metaforica, quasi “filosofica”: l’autore si ricalca sul foglio, diviene personaggio in lotta con il cancro della mente, con le funzioni perverse che soffocano quelle sentimentali e sessuali. Al centro il dubbio: «Dal dubbio deve essere / occupata la mente. / Altrimenti che pensa la mente? / Che fa la mente imperplessa?».
Cerca di scrivere del pensiero ossessivo nel pochissimo tempo
lasciatogli libero dal pensiero ossessivo.
Cerca di scrivere del pensiero ossessivo nel pochissimo tempo.
Non lavora, non esce, non mangia,
all’infinito perfeziona la tessitura d’aria
con un’aderenza perfetta
schiacciata incollata alla cerebrale
spoletta. Schifiltosità disperata
verso ogni dolce contaminazione,
non guarda, non tosse, immobile e puro
sfuggendo la pena che avvampa
dopo il barlume d’una distrazione. Se si accantona, se schiaccia
la molla del dubbio, scatta
più forte, il velo opaco che era
nella scatola della testa
si indurisce, il dubbio marrone
scuro picchia da sinistra e da destra.
Sensazionale è nel letto la notte dello scoppio
(precedente per l’obbligo
real mentale
la scelta obbligatoria). È bianca,
lunga, corta, morta,
piena di pantere e di germi,
precipita, ferma sbarra gli occhi al traguardo.
Si sbatte, arranca, fila.
Fruga prevede cieca
nella visione storta
del mattino,
se sceglie si condanna,
la non scelta è dannata.
Scrive del pensiero ossessivo nel pochissimo tempo
roso, dal margine sfilacciato e breve:
impegnata, tesa è la testa nella notte,
inutile il corpo, l’istinto morto,
e misterioso, il buio
istinto del cervello trivella
l’aria e il tempo. Acrobatico cervello
esteso fino allo stiramento
della carnale propria ineffabile
estensività per toccare la cosa
assente
la cosa
opposta. È vicino
il mattino e più soffia vicino
più la spoletta urge e s’avventa
nella testa, meno la mesta
rassegnazione imbalsama la festa del dubbio.
Dà questo dubbio finali squilli,
cunei di ghisa, enormi spilli.
Tesa è la notte ossessiva mentre il resto
del mondo riposa, tesa e non si rompe:
il tempo invincibile gomma,
il tempo che come il dubbio
pompa il pensiero nero.
Continua la notte illuminata
dalla fiamma ossidrica della
mente tramortita e accesa.
La scadenza, l’alba
fende l’esistente.
Nudo il cervello si muove e sposta coi sussulti,
le esplorazioni da faro dell’ossessione impaziente,
perché la gente aspetta. Non può aspettare la gente
il figlio del travaglio
mongoloide forgiato dal maglio
che fora il tubo di ferro e d’aria.
Troppo corta è sempre la notte
per il pensiero ossessivo, di natura
infinito. Il pensiero
ossessivo pensa sempre più dentro
e sempre più fuori del mondo
perché la decisione interiore
sia più acuta
e meno sussultorio il risveglio.
Meglio non dormire che svegliarsi.
Scatenata è la sindrome. La depressione
sotterra vivacissimo il dubbio, lo slarga,
l’ansia lo piglia per le due
corna e lo sbatte per lo spazio mentale
percuotendo il vuoto pieno di segretissimi
lampi, di qualche cenere, di soffocato fuoco
del più acre pensiero umano.
L’uomo a letto immobilizzato
tutto pensa la ridicola decisione.
È l’ora di essa. Un corno
del dilemma si drizza: ha vinto senza catarsi,
maturazione autonoma e sfuggente,
ei non sa bene perché ha vinto.
Per l’antica coazione
che non apre l’orizzonte del mare,
mare del nascimento? destino.
L’uomo s’alza pesante sotto il piombo
della riserva mentale, sotto
la rinuncia che scuce il cervello.
Appare come pigrizia!
Esce fosco nei trattenuti sussulti
della psiche bevuta durante il trasporto,
avvelenato dall’idea
irrealizzata, avversa nel suo comportamento perverso,
trainato dalla decisione immatura,
slogato dal corno trascurato che tira
verso una mira già diventata ideale,
la mira che non s’avvera,
in una mattina di repellente cera.