Metà donna e metà ape dalla vita in giù, Melitta è negli antichi miti nome di ninfe e di figure femminili. Simbolo di fertilità e di immortalità, intimamente connessa con l’anima, legata alla terra e alle sue insondabili profondità l’ape è anche un ponte con l’oltretomba. Rech non scrive un trattato di apicoltura. Sospeso sulla soglia di un alveare, lo sguardo puro e concentrato del poeta si posa sulla natura, esplora l’intelligenza delle api sui molti piani che la complessità della loro lingua gli consente, ascolta e parla con loro. Libro di apparizioni e metamorfosi, riflessione sulla eternità della memoria e della poesia, qui l’ape anche s’indonna, è «ragazza generosa», capace di dolcezze e di furie spiritate. «Melitta insieme succia e dà tormento / molce e minaccia. E non è abisso lieve». Come il poeta, ha voglia «di nominare il mondo e ogni sua gramma / voglia di fare». Ragazza di strada, ma anche Regina apium, è naturale identificarla con la divinità stessa. E Melitta ci risponde e ci conforta.
Io ho sei api, ragazze generose
in un bel praticello tutto verde
dove un pino fa ombra a una sorgente
di acqua buona per irrigare i campi.
Di un solo verso si accontenta Agilla
che per me è la più quieta e laboriosa:
le piace coi colori
dei fiori disegnare
percorsi aerei da un celeste all’altro.
Thellusa è un po’ che non la vedo
deve impastare la cera
poi costruire i fiali
staccare il polline dai vegetali
piglia, trascina, leviga e pulisce
indaffarata.
Attica è abituata ai grandi viaggi.
Risale la corriera
lenta la china: il diesel
la nafta in fumo nero
pompa e in un rombo che indietro mi torna
-“Ferma
sto attraversando sulle strisce, ferma!”
Attica riede. Conversione ad u.
Ambra e Amatusia stanno sempre insieme.
Dove passano loro
anche le piante sono più felici
danno più semi e hanno più vigore
vegetativo.
Come tra tutte le donne una sola
è buona, quella somigliante
all’ape, secondo la opinione
censoria di Semonide, io dico:
tra tutte le api una è la migliore
Melitta, che assomiglia ad una donna.
Bottinatrice, la caccia del miele
da saccheggiare alle sue scorribande
nel più solivo anfratto cellulare
del cuore mio
un arnaio ha impiantato, pungitivo.
Eccome ne ho paura se ora con l’ago
una vena mi piglia e mi avvelena
se ora mi lascia secreto dolcissimo miele
dal sudato liquore dei suoi baci!
Melitta insieme succia e dà tormento
molce e minaccia. E non è abisso lieve.
*
Avevi ancora sulle labbra il miele
dolce della prima colazione
e qualche briciolina di biscotto
piena di sonno.
Se tu fossi rimasta ancora un poco
ti avrebbe a volte svegliata al mattino
il placido rumore di quando
con moderato furore
pesto il pane raffermo nel mortaio
per darlo agli uccellini al davanzale
di travertino.
Schiariva mentre
la bianca ombra raffreddava un pisolino
del giorno sulle ali dell’aereo
che se ne va lontano ed è appena partito
lo sento: li vedo passare qui sopra
appena si alzano in volo
spinti su da potenti turbine.
Lo so, sono tutti migliori di me
bramano la tua vicinanza tutte le cose
e tutte hanno voglia di starti vicino:
è come avere il sole dentro casa
e tu sei generosa e li accontenti.
Io vorrei rivedere quello sguardo.
In cima alle tue dita
svapora il giorno nuovo in una cialda
calda sul piccolo vassoio in PVC
di un rapido strapiombo
per una inclinazione delle ali:
è la ebbra offerta mia che non collima
con il tuo esile appetito, cosa
che non risolvi però con la suzione
del pollice.
*
La banca delle Regine
(de toto corpore fecerat linguam)
Chi è questo zeòs che geometrizza
il maternaggio per case insensitive?
Madre dei fiori: la natura è morta?
Fuori dove si sono eliminate
le troppe cose il fuoco non fa ombra
apre e spacca le vene il suo contatto.
Rinchiuse nelle loro scatolette
lacrimatoio d’ira smisurata
meglio nessuna legge
battendo i piedi lenta
oziosa, finalmente.
Non muoio
Friggere in ristretti ghirigori
il desiderio di maternità
come rubare un fiato
in disdegnosa diserzione
e non ho nostalgia di quel reparto.
Cade in piedi la notte.
Io dormo sola. Fa’ come le api
è necessario interrompere i baci
per allattare
giocare con il vento
e stendere le ali al sole estivo
è guerra sempre, dormivo
e non era niente
ombreggia l’oleastro
i rosai
di farnie cavità
di invisibili ninfe
in arnie smisurate
A feconde gabbiette rintanate
tentare una sortita
da questa necessaria prigionia.
Nutrito dell’innocuo veleno delle api
restiamo in aria ancora un poco, dico
e non è arte.
Da mamme ossigenate
nascono bimbe bionde