Poesia come malattia virale, rivolta e ribellione del linguaggio alle imposizioni di potere che lo attanagliano. Ma anche poesia come storia sotterranea degli esclusi, dei vinti, dei sommersi, dei diversi, dei caduti in mare a poche miglia dalla meta. Come il timoniere di Enea, Palinuro, la sua tomba inquieta: come Io, la ninfa che si “leva” e si staglia contro la violenza che la calpesta. “Peste e Guerra. La poesia non salverà la vita” è l’inedito viaggio con una bicicletta Bianca, immagine di resistenza o meglio di resilienza di una scrittura poetica nell’arco di quarant’anni: dalla guerra di Bosnia a quella dell’Ucraina, dall’Aids al Covid-19, dalla violenza alla discriminazione sessuale. Paolo Fabrizio Iacuzzi concepisce la sua bicicletta come fosse la nave Argo, assemblando e smantellando brandelli della sua poesia e della sua esperienza intellettuale, trasfondendo il suo sangue e quello della sua famiglia dentro la Storia: una sorta di autofiction epica e corale. Un libro Arlecchino, un libro Frankenstein: una prima parte composta da versi scelti dalla vasta produzione di uno dei maggiori poeti della sua generazione e una seconda che mette in scena il dialogo con il suo interlocutore-curatore-inquisitore, il giovane poeta Michele Bordoni. Non un monologo, non la storicizzazione di una carriera poetica giunta al suo punto di massima altezza. Semmai una restituzione al mondo della voce che, prima inspirata, viene ora espirata nella condivisione e nel contagio dei valori della poesia, del potere delle immagini e della forza dei colori. Una celaniana “svolta del respiro” che non salverà la vita solo perché il suo compito è quella di renderla possibile.
Giorni vicini al solstizio d’estate. Nel Piano di Furia
sedato dal dolore. E lui in piedi davanti al tribunale
delle Ortensie. Baffi arricciati in su per inquisire. Così
è arrivata la bella stagione. Col puntaspilli alle spalle.
Ficcate nel suolo le Annabelle. Le bianche idrangee
femmine in questo contesto. Quelle belle porzioni
di cervello issate sulle spade. Intelligenze franate
lungo la ringhiera del bastione che ora si affolla.
Per giudicare il corpo. Quel suo corpo infilzato da
spade. Per apporvi bucato il cartamodello da sarto
col bisturi e fili. Discendendo lui da antichi cerusici.
Per quelle tavole di anatomia che avrebbe redatto
con dovizia imposta da parole. Ortensie immense
assise al fuoco. All’ombra del vecchio cerro malato.
*
La generazione dei nemici
Ritrovarsi fra tanti amici. Noi per dire
io Andrea e Marco in un nome. Ritrovarsi
per stare in agguato. Perdemmo presto
i nostri padri. Ma noi per dire io abbiamo
di nuovo una casa. Noi per dire io
fummo tra voi prima che ci conosceste.
Vostri amici e nemici dispersi. Chi
portando libri in una collana annerita.
E chi pensando di smacchiare il nome
della comune poesia. Chi di ogni alto
palcoscenico fa vanto per un solo fine.
E chi in basso appartamento si erge
sul piedistallo. Ma noi per dire io
abbiamo impiegato tanto tempo.
Siamo i vostri fratelli maggiori. O forse
i minori del vostro comune amore.
*
Palinuro Mariupol
Palinuro l’amico d’infanzia. Trasfuso in noi
per virus nasale. Se il nocchiero per teatro
si cela dentro un anagramma. Per questo
nuovo esodo col grande caduto insepolto.
Fosse comuni e lapidi non scritte. Mai erette
nella terra nuda. Grigioverde senza le toppe
di colore. Taras Bulba tornato dopo la peste
per il tempo dell’Apocalisse. Per i trent’anni
di stragi dalla Bosnia. Per le donne che una
dice la violenza ci spezza. Ma nascondiamo
il computer con la foto del nostro amore.
Col nostro cuore indomito. Mentre passa lei.
E Frida già trasfonde il sangue dal cartellone
per tutti. Sommersi nel teatro di Mariupol.