Arriva in libreria la seconda edizione integrale del libro “Versi” del 1826, riprodotta in un volume unico, nel formato ampliato della collana “Interno Classici”. Un’opera raffinata, ai più sconosciuta, nella quale la ripartizione delle sezioni per componimento (Idilli, Elegie, Sonetti, Epistola, Volgarizzamenti) regala uno sguardo complessivo e magnetico sulla assoluta grandezza di Giacomo Leopardi.
L’infinito
Sempre caro mi fu quest’ermo colle,
E questa siepe, che da tanta parte
De l’ultimo orizzonte il guardo esclude.
Ma sedendo e mirando, interminato
Spazio di là da quella, e sovrumani
Silenzi, e profondissima quiete
Io nel pensier mi fingo; ove per poco
Il cor non si spaura. E come il vento
Odo stormir tra queste piante, io quello
Infinito silenzio a questa voce
Vo comparando: e mi sovvien l’eterno,
E le morte stagioni, e la presente
E viva, e ’l suon di lei. Così tra questa
Infinità s’annega il pensier mio:
E ’l naufragar m’è dolce in questo mare.
*
La ricordanza
O graziosa Luna, io mi rammento
Che, or volge un anno, io sopra questo poggio
Venia carco d’angoscia a rimirarti:
E tu pendevi allor su quella selva
Siccome or fai, che tutta la rischiari.
Ma nebuloso e tremulo dal pianto
Che mi sorgea sul ciglio, a le mie luci
Il tuo volto apparia; chè travagliosa
Era mia vita: ed è, nè cangia stile,
O mia diletta Luna. E pur mi giova
La ricordanza, e ’l noverar l’etate
Del mio dolore. Oh come grato occorre
Il sovvenir de le passate cose,
Ancor che triste, e ancor che il pianto duri.
*
Elegia I
Tornami a mente il dì che la battaglia
D’amor sentii la prima volta, e dissi:
Ahimè, se quest’è amor, com’ei travaglia!
Che gli occhi al suol tuttora intenti e fissi,
Io mirava colei ch’a questo core
Primiera il varco ed innocente aprissi.
Ahi come mal mi governasti, amore!
Perchè seco dovea sì dolce affetto
Recar tanto desio, tanto dolore?
E non sereno, e non intero e schietto,
Anzi pien di travaglio e di lamento
Al cor mi discendea tanto diletto?
Dimmi, tenero core, or che spavento,
Che angoscia era la tua fra quel pensiero
Presso al qual t’era noia ogni contento?
Quel pensier che nel dì, che lusinghiero
Ti si offeriva ne la notte, quando
Tutto quieto parea ne l’emispero.
Ma tu inquieto, e felice e miserando,
M’affaticavi in su le piume il fianco,
Ad ogni or fortemente palpitando.
E dove io tristo ed affannato e stanco
Gli occhi al sonno chiudea, come per febre
Rotto e deliro il sonno venia manco.
Oh come viva in mezzo a le tenebre
Sorgea la dolce imago, e gli occhi chiusi
La contemplavan sotto a le palpebre!
Oh come soavissimi diffusi
Moti per l’ossa mi serpeano, oh come
Mille ne l’alma instabili, confusi
Pensier mi si volgean! qual tra le chiome
Talor de’ boschi zefiro scorrendo,
Un lungo, incerto susurrar ne prome.
E mentre io taccio, e mentre io non contendo,
Che dicevi o mio cor, che si partia
Quella per che penando ivi e battendo?
Il cuocer non più tosto io mi sentia
De la vampa d’amor, che ’l venticello
Che l’aleggiava, volossene via.
Senza sonno i’ giacea sul dì novello,
E i destrier che dovean farmi deserto,
Battean la zampa sotto al patrio ostello,
Ed io timido e cheto ed inesperto,
Ver lo balcone al buio protendea
L’orecchio avido e l’occhio indarno aperto,
La voce ad ascoltar, se ne dovea
Di quelle labbra uscir, ch’ultima fosse;
La voce, ch’altro il fato, ahi, mi togliea.
Quante volte plebea voce percosse
Il dubitoso orecchio, e un gel mi prese,
E ’l core in forse a palpitar si mosse!
E poi che finalmente mi discese
La cara voce al core, e de’ cavai
E de le rote il fragorio s’intese;
Orbo rimaso allor, mi rannicchiai
Palpitando nel letto e, chiusi gli occhi;
Strinsi il cor con la mano, e sospirai.
Poscia traendo i tremuli ginocchi
Stupidamente per la muta stanza,
Ch’altro sarà, dicea, che ’l cor mi tocchi?
Amarissima allor la ricordanza
Locommisi nel petto, e mi serrava
Ad ogni voce il core, a ogni sembianza.
E lunga doglia il sen mi ricercava;
Com’è quando a distesa Olimpo piove
Malinconicamente e i campi lava.
Ned io ti conoscea, garzon di nove
E nove Soli, in questo a pianger nato
Quando facevi, amor, le prime prove.
Quando in ispregio ogni piacer, nè grato
M’era de’ campi il riso, o de l’aurora
Queta il silenzio, o il verdeggiar del prato,
Anche di gloria amor taceami allora
Nel petto, cui scaldar tanto solea,
Chè di beltate amar vi fea dimora.
Nè gli occhi a i noti studi io rivolgea,
E quelli m’apparian vani per cui
Vano ogni altro desir creduto avea.
Deh come mai da me sì vario fui;
E tanto amor mi tolse un altro amore?
Deh quanto, in verità, vani siam nui!
Solo il mio cor piaceami, e col mio core,
In un perenne ragionar sepolto,
A la guardia seder del mio dolore.
E l’occhio a terra chino o in se raccolto,
Di riscontrarsi fuggitivo e vago
Nè in leggiadro soffria nè in turpe volto:
Chè la illibata, la candida imago
Contaminar temea sculta nel seno;
Come per soffio tersa onda di lago.
E quel di non aver goduto appieno
Pentimento, che l’anima ci grava,
E ’l piacer che passò cangia in veleno,
Per li fuggiti dì mi stimolava
Tuttora il sen: chè la vergogna il duro
Suo morso in questo cor già non oprava.
Al Cielo, a voi, gentili anime, io giuro
Che voglia non m’entrò bassa nel petto,
Ch’arsi di foco intaminato e puro.
Vive quel foco ancor, vive l’affetto,
Spira nel pensier mio la bella imago,
Da cui, se non celeste, altro diletto
Giammai non ebbi, e sol di lei m’appago.
Dalla postfazione di Umberto Piersanti
Versi del 1826 è un libro importante: ci dà uno spaccato ricco e variegato della scrittura leopardiana. Accanto agli Idilli tra i quali spicca in modo assoluto L’infinito, ci sono scritti minori, ma importanti per comprendere la figura del recanatese. Anzi, sono questi ultimi a contrassegnare l’identità del libro. I Sonetti del beccaio, forse l’opera in assoluto meno bella del recanatese, sta lì a ricordarci quanto di “umano”, un “umano” fatto anche di grovigli e ripicche letterarie, sia presente nell’assoluta grandezza leopardiana.
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